A Kobane, i segni indelebili della guerra
Dalla nostra delegazione in viaggio nella Siria Confederale del Nord
Nel 1919 i tedeschi costruirono una linea ferroviaria che collegava Baghdad a Berlino passando per Kobane. Da allora le persone che vivevano qui a Kobane, iniziarono a pensare questo territorio facendo riferimento proprio alla compagnia locale che si occupava della costruzione della linea di trasporti. Tanto che pare che persino il nome della città trovi origine nella cattiva pronuncia degli abitanti della zona della parola ‘company’, che quindi diventò ‘Kobani’. Il nome di questa città, diventata simbolo di una bellissima storia di resistenza e liberazione, nasce perciò da un errore di pronuncia. Ogni guerra, battaglia o liberazione deve fare i conti, anche e soprattutto dopo ogni vittoria, con chi ha dato la propria vita o è rimasto gravemente ferito per ottenerla. Sono proprio i feriti della battaglia di Kobane che incontriamo oggi: uomini e donne che hanno resistito fino all’ultimo contro l’esercito di Daesh. Anche se non è facile parlarne, molti sono disponibili a raccontare la loro storia: “Durante l’assedio ci fu un momento in cui eravamo rimasti solo in sessanta; abbiamo resistito per tre giorni senza cibo e senza acqua. Sono stati dei momenti davvero molto tragici, chi non ha vissuto la guerra non può capire: non ci sono parole giuste per descrivere tutto ciò. L'unica ragione per cui siamo riusciti a rimanere in vita, continuare a lottare e resistere, è stato un profondo ideale che ci anima dentro. Oggi, passeggiando per le stradine della mia città, continuo a rivivere ogni momento di quei terribili giorni, ogni istante è impresso nella mia mente. Quando però vedo i bambini che giocano per strada, le mamme che passeggiano nel bazar, gli uomini che fumano i loro narghilè, vedo la serenità delle persone e tutto questo è una gioia che mi fa dimenticare la brutalità e le violenze. Ed è proprio in questi momenti che capisco che ne sia valsa la pena!” Alcuni ci raccontano anche come sono stati feriti: “Siamo stati feriti in momenti diversi" ci dice un ragazzo volgendo il capo verso gli altri compagni. “Lui è saltato su una mina e, come potete vedere, ha perso entrambe le gambe. Lui, invece, mentre cercava di salvare un compagno ferito è stato colpito agli occhi dalle schegge di un proiettile. Ha perso la vista e i dottori dicono che non ci siano speranze per lui. In tanti siamo feriti, alcuni potrebbero essere curati meglio ma qui non abbiamo gli strumenti medici adeguati, non abbiamo le protesi e l'unico modo per avere dei trattamenti sanitari è venire in Europa. Ma i vostri Stati non ci permettono di avere il visto, ci vietano un accesso alle cure necessarie. Perché?".
Ci spostiamo, una compagna delle YPJ ci porta sulla collina di Mistenurn, punto strategico della città da cui si riesce a vedere, oltre che ogni stradina di Kobane, anche il lungo muro che segna il confine con la Turchia. Questa collina ha un forte valore simbolico, e infatti la battaglia si è decisa anche nella sua conquista: è qui, dove sventolava la bandiera nera di Daesh quando sembrava che Kobane fosse persa e Erdogan ne dava la caduta in 24 ore, che venne innalzata quella colorata delle YPJ ed YPG, segnando la fine di Daesh. “Da questa collina ogni ricordo diventa vivo, vedo tutte le compagne che hanno perso la vita sotto i miei occhi. Ogni angolo, ogni strada mi riporta a quei giorni di guerra. Dopo Kobane, abbiamo iniziato a liberare i villaggi vicini ed è proprio in quel momento che sono rimasta ferita, perdendo il mio occhio destro. Ero insieme ad altre dodici combattenti, a qualche chilometro da qui, quando siamo finite in un’imboscata dell’Isis: otto di noi hanno perso la vita. Io, per fortuna, sono ancora qui, ma le schegge di una roccia fatta esplodere dall’artiglieria pesante degli islamisti mi è entrata nell’occhio, togliendomi la vista. Avevo 19 anni e porterò sempre con me questo segno, ma ne andrò sempre fiera: ho fatto il mio dovere, ho fatto ciò di cui l’umanità intera aveva bisogno per liberarsi dall’esercito jiiadista.’’
Sono così le storie dei feriti, sono quelle che ci toccano di più perché forse non si è mai pronti a fare davvero i conti su quanto sia alto il prezzo di una guerra, su quante vite si perdano e quante vengano stravolte per sempre.
La nostra giornata si chiude con la visita al cimitero dei martiri, dove le innumerevoli tombe sembrano non avere fine. Leggiamo i nomi delle combattenti e dei combattenti caduti a Kobane, seguiti da quelli caduti nella liberazione di Raqqa, Mambj, Haseke ed altre città o villaggi siriani liberati dalle YPG e YPJ: per lo più ragazze e ragazzi giovanissimi. Incontriamo un combattente delle Forze Democratiche Siriane, un uomo di mezza età, in divisa, che sta in piedi davanti alla tomba del proprio figlio caduto a 20 anni appena compiuti. Mentre usciamo ci vengono incontro alcune ragazze che portano i segni della recente invasione di Afrin da parte della Turchia. C’è chi ha perso una gamba, chi una mano, chi ha profonde ferite. Anche loro giovanissime, la più “vecchia” ha soli 23 anni. “Abbiamo resistito per 58 giorni senza acqua ed elettricità mentre la comunità internazionale stava a guardare. Se non fosse stato per gli attacchi aerei oggi saremmo ancora lì. Ma Afrin, come Kobane, verrà liberata di nuovo. Di questo, potete esserne certi!". Noi siamo un po' in imbarazzo, non si trovano mai le parole di fronte a queste situazioni. Può solo salire tanta rabbia se pensiamo che il Governo italiano e l’Unione Europea non hanno mosso un dito per impedire a Erdogan di invadere Afrin e compiere un massacro. La cosa paradossale è che sono loro stessi a metterci a nostro agio, ci chiedono perché siamo lì, cosa accade in Italia e poi, come se fossimo in una qualsiasi piazza di Bologna, ci chiedono di fare delle foto insieme, con quella spensieratezza che tutt@ le/i giovani avrebbero diritto di avere a 20 anni.