top of page

Raqqa e Manbij: dal regime di Daesh alla rivoluzione delle donne (testimonianza delegazione rete jin

Dal sito di RETE JIN un interessante contributo dalla delegazione italiana in Rojava: sei donne provenienti da diversi parti d’Italia legate dalla solidarietà con la rivoluzione delle donne nella Federazione Democratica della Siria del Nord e dell’Est.

Anche due nostre attiviste, Letizia e Adele, si trovano a Raqqa, Siria: qui un loro video-commento

Continuando il nostro viaggio, percorrendo le rive dell’Eufrate e spostandoci verso l’ovest della Siria arriviamo a Raqqa, città ex roccaforte dello Stato Islamico, considerata a lungo la capitale jihadista. Appena arrivate notiamo un contrasto enorme tra una città distrutta e rasa al suolo che allo stesso tempo si riempie di vita, di bambini che giocano per le strade, di piccole attività commerciali e del traffico squillante tipico di tutte le città che abbiamo incontrato fino ad ora.

Sin dai primi passi che facciamo nelle strade di Raqqa capiamo come la popolazione non abbia abbandonato la sua città, ma stia provando a ricostruirla non solo in termini fisici ma anche sociali. Conosciamo bene la storia di Raqqa, se ne è parlato a lungo due anni fa, nel 2017, quando le Unità di Difesa del Popolo e delle Donne, YPG e YPJ, assieme alle Forze Democratiche Siriane, SDF, con il supporto delle forze americane, hanno liberato questa città dalle bandiere nere dell’ISIS. Il primo incontro che abbiamo a Raqqa è con il ‘’Reverberiya Jinê ya Reqayê”, il corrispettivo del Kongreya Star delle donne di Raqqa.

“Ero qui da prima che arrivasse Daesh’’ ci racconta Heval Zalikà “ho vissuto tutto il periodo di invasione del califfato. Prima di Daesh c’era il regime e come donne non eravamo libere, ma ridotte a marginalità, non avevamo nessun peso nella società. Sotto il regime difficilmente ci era concessa la possibilità di frequentare l’università o di esprimerci liberamente, avevamo la possibilità di insegnare nelle scuole ma non era nelle nostre mani la possibilità di scegliere di poterlo fare o meno. Quando è arrivato Daesh la situazione è diventata insostenibile: ci è stato negato tutto, non potevamo mostrare neppure i nostri occhi, eravamo costrette a coprire integralmente il nostro corpo.

” Zalikà continua la sua testimonianza raccontandoci che proprio nella città e nelle strade che in questo momento stiamo girando, sono molte le donne che sono state uccise, e molte altre, come le yezide, sono state vendute come animali. Bambine dai 10 ai 12 anni venivano costrette a sposarsi, anche con uomini molto più grandi. Se per qualche motivo queste spose bambine perdevano il marito potevano essere consegnate in spose ad altri uomini dell’esercito di Daesh, fino ad arrivare a quaranta matrimoni.

Zalikà ci spiega come questo stato di terrore fosse reso possibile dagli uomini del califfato grazie a un meccanismo di pressioni, fatto di torture e ricatti verso l’intera famiglia delle donne che venivano scelte come future spose: se la figlia non gli veniva data in sposa potevano arrivare ad uccidere tutti gli altri membri della famiglia, metterli in prigione o torturarli. Un’ulteriore regola imposta da Daesh era il divieto per tutte le donne di poter lasciare la città.

Monumento islamico della città di Raqqa distrutto dall’iSIS,( Luglio 2019)

Ci tengono a raccontarci come prima dell’arrivo di Daesh la città di Raqqa fosse una fucina di culture ed etnie molto differenti tra loro. Una città che al suo interno conservava diversi luoghi di culto, non solo islamici ma anche cristiani, dove le strade erano animate da una mescolanza di lingue, accenti e dialetti. Più volte ci tengono a dirci come Daesh non sia assolutamente una parte o una rappresentanza della cultura e della religione islamica, infatti facendoci vedere moschee e luoghi simbolo dell’islam ci raccontano come gli uomini del califfato le abbiano totalmente ridotte in macerie, distruggendo pezzi di storia e di religione. ‘’Non sono persone mosse da un credo religioso. Questo non è l’islam, ma una cultura dell’odio, della tortura, della violenza e delle uccisioni”.

Quando lo stato Islamico è arrivato in città ha iniziato a rompere la convivenza e la multiculturalità presente e ha iniziato a separare la popolazione. Rinchiudeva le donne in casa, mandava via i curdi dalla città, e attaccava i luoghi di culto della comunità cristiana e successivamente anche quelli islamici, fino a costruire passo dopo passo una società basata sulla paura e sulla rigida restrizione della libertà. Le donne che hanno vissuto il periodo d’invasione di Daesh sono state sottoposte ad atrocità indescrivibili, difficili da raccontare, che hanno portato spesso a un clima non solo di terrore ma anche di grande rassegnazione. Si è accesa una speranza importante però quando Daesh è stato cacciato da Kobanê e le YPJ e YPG hanno iniziato l’avanzata ad est dell’Eufrate.

Queste storie di liberazione sono arrivate anche alle donne di Raqqa che iniziarono a far crescere anche in loro una spinta verso l’eliminazione del regime jihadista. “Come donne di Raqqa ci siamo unite subito alle SDF poiché avevamo subìto così tanta violenza e brutalità che non potevamo non unirci ai compagni e alle compagne e iniziare a lottare’’. Le hevalen delle commissioni di Raqqa continuano a raccontarci la loro esperienza dicendo che ‘’quando Raqqa è stata liberata non avevamo nessuna fondazione o struttura per le donne, e abbiamo iniziato ad attivarci per la costruzione di comitati. Quando abbiamo iniziato a fondare i primi comitati per le donne era un enorme dolore già solo quello di uscire di casa e vedere la città così distrutta e ridotta in macerie. Sapevamo bene qual era la situazione intorno a noi, quanti orrori e torture avevano vissuto tutte le donne. Ci è stato subito chiaro che il primo lavoro da iniziare a intavolare con il comitato era quello dell’educazione: far capire che tutte potevamo giungere a una condizione di libertà e tutto ciò che avevamo vissuto non era una normale quotidianità, ma frutto di un sistema orribile di Daesh che doveva e poteva essere distrutto”.

La liberazione di Raqqa è stato solo il punto zero per ripartire con la costruzione di una nuova società, un lavoro costante e quotidiano, capillare e lento, finalizzato a rompere ed eliminare la terribile mentalità sviluppata dagli uomini in secoli di patriarcato e in anni di egemonia jihadista. Ci dicono come il 30% degli uomini di Raqqa è attivo in un percorso di rieducazione, ma c’è ancora tanto da fare per ribaltare lo stato delle cose. Nella rieducazione sono partite dai problemi maggiori che vedevano e sentivano nella loro società, infatti in questo momento stanno lavorando per vietare la poligamia, matrimoni forzati e infantili.

‘’Quando ci dicono che la poligamia è promossa nel Corano rispondiamo determinate che siamo andate a studiare e rileggere il corano ed in esso è scritto che per un uomo è prevista una sola donna’’. È così che stanno decostruendo tutto, rimettendo in discussione secoli di storia, studiando ed educando verso una società femminista e libera dalla mentalità del maschio dominante e rivalorizzando figure femminili antiche anche nell’Islam. Con enorme coraggio e lavoro le donne hanno iniziato a costruire realtà per donne prima nei villaggi circostanti la città, dando vita alle komine, spazi liberi in cui tutte possono recarsi per chiedere aiuto e confrontarsi sui problemi che hanno, fino ad arrivare a costruirne altre nel centro città, e creare così un consiglio delle komine di Raqqa. In questo momento esistono 400 komine e 17 consigli per donne in tutta l’area di Raqqa, divise in comitati che si occupano di educazione, economia, salute, media, archivi del materiale storico. L’obiettivo di questi consigli è creare spazi per donne, dar voce alle loro rivendicazioni e alle loro volontà. Ci colpisce il simbolo dei consigli delle donne di Raqqa, una donna con una stella, simbolo di una presenza importante, brillante e piena di una luce che non dovranno più perdere, una luce che è vita.

È davvero emozionante vedere, in una città assediata per anni da Daesh, la forza e la volontà di donne che lottano, lavorano e studiano per creare una società multiculturale ed egualitaria, che discutono con grande determinazione e speranza sul loro futuro. Un futuro che crediamo possa essere anche il nostro, un futuro e una lotta che ci accumuna verso una società libera e donna.

Delegazione italianai Rete Jin incontra la Reverberiya Jinê ya Reqayê (Luglio 2019)

Manbij

Prima di visitare Raqqa con la nostra delegazione ci siamo spostate per la prima volta a ovest dell’Eufrate, superando questo fiume così imponente e pieno di storia e muovendoci per qualche chilometro, arriviamo nella città di Manbij.

Manbij è una località a nord ovest della Siria dove la lingua ufficiale è l’arabo, legata alla maggioranza etnica, ma dove sono presenti anche comunità curde, cecene, circasse e turkmene. Come altri territori della Siria del Nord, anche la città di Manbij nella primavera del 2014 venne assediata dalla Stato Islamico e portata a uno stato di terrore per quasi tre anni fino alla liberazione da parte delle SDF.

Lì incontriamo le donne della commissione economica della città: donne piene di energia e vita che ci accolgono con un ritmo incessante di baci e tanta gioia negli occhi per averci lì. Forse è la prima volta che abbiamo un’accoglienza così calorosa e poco formale e il fatto che avvenga in una città così complessa ci lascia piacevolmente sorprese.

Delegazione italianai Rete Jin incontra la commissione economica di Mambij (Luglio 2019)

Le donne ci raccontano che il loro lavoro è iniziato solo sei mesi fa e la loro commissione non ha ancora precisi progetti attivi o cooperative avviate e che la situazione è ancora molto instabile, tra cellule ancora attive di Daesh e la minaccia costante della Turchia è difficile avviare delle progettualità. Per ora, aiutate dalla commissione economica del Rojava, stanno favorendo attività di donne di vendita di pane, pollo, falafel e saponi. Come commissione pongono particolare attenzione per le donne rimaste vedove durante la guerra, infatti insieme a loro stanno attivando una sartoria dove potersi creare una propria stabilità economica e liberarsi dalla dipendenza dagli uomini.

A Manbij non incontriamo solo la commissione economica, ma anche una quindicina di donne del Consiglio delle donne di Manbij dove ognuna ci saluta in modo differente spiegandoci innanzitutto di essere di diverse etnie, alcune arabe, altre curde, curdo-arabe, circasse e turkmene. Da parte nostra scatta in automatico una domanda su quale sia la storia di Manbij e se hanno voglia di raccontarci qualcosa, dato che effettivamente sappiamo molto meno rispetto a storie più note come quella di Kobanê. Gli occhi che abbiamo di fronte diventano lucidi, un misto tra rabbia e dolore con il quale ci dicono che è davvero difficile fare un salto indietro e raccontare le atrocità subite.

“Prima della rivoluzione le donne sono state marginalizzate, costrette a nascondere se stesse e il proprio corpo senza alcuna possibilità di poter lasciare la propria casa’’ ci racconta Heval Eptisam di origini arabe “non avevamo alcun diritto e abbiamo subito violenze di ogni tipo da parte di Daesh’’. Continua a raccontarci Eptisam che quando Manbij è stata finalmente liberata sentivano il bisogno di creare spazi di donne dove poter superare insieme il peso delle violenze vissute, da questa esigenza è nato il consiglio delle donne. Prima della fondazione di quest’ultimo la prima istituzione di donne che prese vita in città è stata quella di Mala Jin, la casa delle donne. Con l’attivazione del consiglio delle donne si sono interfacciate con molte difficoltà e ostacoli, in primis le opposizioni da parte degli uomini che non accettavano il fatto che uscissero dalla propria casa per dedicarsi al consiglio.

Prima di formare il consiglio le donne si sono divise in gruppi e hanno iniziato a fare una mappatura della città, visitando casa per casa tutte le donne, giovani e anziane, ascoltando le loro esperienze. Hanno voluto raccogliere tutti i problemi vissuti e quelli presenti per capire a fondo la società attuale e per trovare insieme degli strumenti risolutivi. Hanno conquistato la fiducia delle donne della città creando una grande sinergia e desiderio di attivare dei percorsi insieme. Da quando è stato fondato il consiglio delle donne le prime attenzioni sono state rivolte a coloro che non avevano un’autonomia economica, donne rimaste vedove o provenienti da condizioni di povertà. Sono stati creati diversi percorsi che si occupano di economia, istruzione, educazione, salute e lavoro.

Ci racconta Heval Medini, di origini turkmene ‘’Per provare a cambiare la vecchia mentalità delle donne, quella di schiave e sfruttate, c’è bisogno di un ribaltamento radicale. Per prima cosa bisogna offrire a tutte la possibilità di seguire delle educazioni, allo stesso tempo fornire una scolarizzazione a tutte le donne, cosa che prima gli era proibita. Oggi uno degli scopi del consiglio è quello di organizzare le donne in tutti i settori e non lasciarle più in casa. Ci siamo conquistate la presenza nella politica, nelle istituzioni, nei comitati, nelle scuole e vogliamo che sempre più donne abbiano questi accessi.’’

Incontro con il Consiglio delle donne di Mumbij (Luglio 2019)

Alle fine del 2018 il consiglio delle donne di Manbij ha tenuto la sua prima conferenza con lo scopo di fare un’analisi del lavoro svolto fino ad ora, ogni gruppo ha scritto il proprio report riguardo la sua esperienza e sono stati tutti confrontati. Durante la conferenza si sono interrogate su come vogliono strutturare il lavoro futuro e su come organizzare meglio le articolazioni delle donne di Manbij per continuare a migliorarsi e arrivare sempre a più donne possibili.

Il Rojava, oggi Siria Confederale del Nord e dell’Est, si mostra sotto i nostri occhi per quello che è: non un percorso di rivendicazione di un solo popolo, ma un movimento di liberazione di donne e uomini di qualsiasi identità, etnia e cultura che insieme stanno costruendo una nuova realtà possibile fatta di tante comunità autonome e auto amministrate dove ognuna può esprimere il suo credo, la sua lingua, la sua identità.

Raqqa e Manbij sono forse gli esempi più radicali della forza di questa rivoluzione dove non esiste una ricetta per costruire il confederalismo democratico. Esiste solo l’intelligenza e la volontà di cercare un modo specifico, come direbbero gli zapatisti, per ciascuna realtà, attraverso lo sviluppo di comunità autonome, femministe, ecologiste, non isolate ma sempre interconnesse tra loro.

Delegazione italiana Rete Jin

bottom of page