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La frontiera greco-turca al tempo della pandemia: respingimenti, controllo e criminalizzazione



Skala Sykaminea è un piccolo villaggio affacciato sul mare, a nord dell'isola di Lesbo. Poche miglia più in là, la Turchia. Nulla farebbe credere che negli ultimi anni questo tranquillo paesino di pescatori sia stato uno strategico avamposto in cui supportare la fuga in Europa di migliaia di persone. In seguito alle tensioni con le autorità e i numerosi attacchi fascisti dello scorso inverno, quasi tutte le ONG e gruppi di solidali hanno abbandonato la postazione. Le decine di volontari e attivisti che dal 2015 si sono susseguiti, scompigliando la monotona routine del paese, sono scomparsi. Ne rimane una debole eco, tra una battuta e l’altra di qualche abitante o alcune scritte sui muri. L’unica costante che permane in questo luogo è il confine. Invisibile, si materializza in queste poche miglia d’acqua, oggi apparentemente vuote e mute.

Complessi e interconnessi sono gli eventi che hanno modellato la nuova fase di questa frontiera. Le tensioni politiche tra la Grecia e la Turchia dello scorso febbraio, i numerosi attacchi fascisti e la stretta sulle misure di controllo imposte dalla pandemia hanno determinato una crescente criminalizzazione dei migranti e delle organizzazioni solidali. I pushbacks ne sono la sua prima manifestazione.


Da un anno a questa parte gli sbarchi sull’isola sono drasticamente diminuiti. Secondo Aegean Boat Report, un’organizzazione indipendente che monitora da anni la situazione sul confine, nel 2020 solo 9617 persone sono riuscite a raggiungere le coste greche. Questo non significa però che i migranti abbiano rinunciato ad attraversare il confine. Sempre secondo ABR, sono stati registrati 324 casi di pushback illegali, per un totale di 9741 persone a cui è stato brutalmente negato il diritto di richiedere asilo.


Nel Mar Egeo avvengono due tipi di respingimenti. Il primo tipo corrisponde alla definizione classica di pushback: le barche in viaggio verso la Grecia vengono bloccate in mare e respinte in acque territoriali turche. Molte testimonianze denunciano l’arrivo di uomini incappucciati che danneggiano il motore o sequestrano la benzina prima di respingere l’imbarcazione alla deriva. Il secondo tipo viene invece utilizzato quando le persone sono già approdate su suolo greco. In questo caso si avvia una vera e propria caccia all’uomo (donna e bambino). Sono stati registrati diversi casi in cui le persone appena sbarcate sono state rapite, detenute anche diversi giorni senza né cibo né acqua in luoghi sconosciuti dell’isola, e rigettate nella notte in mare su zattere di salvataggio. Questo tipo di respingimento incrementa ulteriormente il livello di violenza solitamente attribuito a questa pratica, eccedendo da un punto di vista sia legale che politico la definizione stessa di pushback.


La Grecia si conferma essere ancora una volta un laboratorio per la gestione dei confini europei, un luogo in cui sperimentare nuove strategie deterrenti, da asportare altrove se necessario. I violenti pushbacks a catena che stanno tenendo bloccate migliaia di persone sulle montagne bosniache lo dimostrano chiaramente. Osservati da Skala, quei respingimenti non appaiono tanto diversi da quelli che avvengono, seppur in maniera più silenziosa, da più di un anno nell’Egeo.


Una serie sempre crescente di dossier e report denuncia questa ormai consolidata pratica sul confine greco-turco. Negli scorsi mesi inchieste di note testate giornalistiche internazionali e organizzazioni indipendenti hanno presentato al pubblico e alla Commissione Europea prove concrete sul coinvolgimento della Guardia costiera greca in queste attività. L’esorbitante numero di testimonianze palesa una costante violazione dei diritti umani ai confini d’Europa e ne svela il suo carattere sistematico. La regia di questa strategia però non può essere attribuita unicamente ai singoli paesi europei coinvolti per primi dal fenomeno migratorio. Insieme ai singoli governi nazionali, anche le istituzioni europee hanno un ruolo cruciale nello sviluppo della policy per la gestione dei suoi confini. L’agenzia europea di Frontex è stata riconosciuta in molte inchieste come co-responsabile e testimone silenziosa di diversi casi di respingimento, come dimostrato peraltro dalla richiesta di dimissioni dell’executive director, Fabrice Leggeri, da parte di diversi gruppi al Parlamento europeo e dalla relativa inchiesta aperta nei confronti di Frontex dalla Commissione europea e dall’Ufficio europeo anti frode (OLAF). Non riconoscere tutti gli attori coinvolti nella violenta gestione dei confini europei rischia di non farci comprendere le responsabilità e le reali dimensioni di questo gioco cinico e meschino.


Un ultimo elemento importante da menzionare è il Covid-19. La pandemia, con le sue misure di contenimento, ha determinato un inasprimento del controllo delle persone migranti, sia di quelle già in Europa che di quelle ancora in viaggio. Complementarmente, ha fatto sì che le zone di frontiera, già difficilmente attraversate e monitorate, si svuotassero ancor di più di quei pochi occhi testimoni che costituivano un seppur minimo fattore deterrente e che oggi con fatica lottano per poter continuare a raccontare. Controllo e criminalizzazione, una combinazione che ha aperto ampi spazi di agibilità alle autorità di frontiera per implementare pratiche illegali, lontane da occhi indiscreti.


Come reagire alla crisi pandemica e politica del nostro presente? Come reinterpretare le pratiche in supporto alla libertà di movimento in un momento in cui anche la libertà di chi è solidale è messa sotto scacco? Momenti storici come questo rischiano di farci cadere in un profondo senso di impotenza. Allo stesso tempo, ci mettono in discussione, ci riposizionano, accorciando la distanza tra chi aiuta e chi viene aiutato, chi lotta e chi è solidale alla lotta. Nella crisi ci si ritrova fianco a fianco, condividendo improvvisamente molto più di quanto ci si aspetti. Domani, le sfide alle nuove pratiche governamentali plasmate dalla crisi pandemica sia sui confini che nelle nostre città richiederanno un innalzamento del conflitto per riconquistare lo spazio che ci è stato tolto. Oggi abbiamo il tempo di interrogarci: quali rischi siamo pronte a correre per difendere la libertà che la pandemia ci sta insegnando essere non solo di chi fugge da guerre, conflitti e povertà, ma di tutte e tutti noi?


Qualche giorno fa a Lesbo ha nevicato. La tempesta di freddo che si è abbattuta sull’Europa ha trasformato l’isola in un luogo magico. A 40 km da Skala Sykaminea c’è il nuovo campo di Kara Tepe, o Moria 2.0, appena fuori Metilene. La neve è caduta anche lì, congelando 7500 donne, uomini e bambini che provano a sopravvivere senza elettricità o la possibilità di accendere un fuoco. Nel frattempo, un uomo appena sbarcato è morto di freddo aspettando i soccorsi che sono arrivati con ore di ritardo. Questa è l’Europa del 2021. Che questa immagine possa guidare e organizzare la nostra rabbia verso nuove soluzioni, vie d’uscita inaspettate da questo tempo apparentemente senza prospettive.

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